La nascita della legge 381/91
Erano tempi di cambiamento, questo è certo. Il debito superò per la prima volta il PIL, c’era già il sentore di una grande crisi dell’auto e nell’aria si cominciava a respirare la tensione della disoccupazione. Alla fine degli anni ’80 era caduto il muro di Berlino, la Jugoslavia si stava dissolvendo e tra le mille questioni se ne presentava una nuova: nel porto di Brindisi cominciavano a sbarcare le carrette di profughi in cerca dell’Eden promesso da televisioni piene di lustrini e pallettes. E mentre ci si lasciavano alle spalle gli anni di piombo, si riscontrarono i primi episodi di intolleranza nei confronti degli immigrati che nel ’90 erano meno di un milione.
Si aveva l’impressione che tutto dentro non ci potesse più stare c’era bisogno di cedere una parte del controllo e di far entrare in campo forze nuove, o meglio, di liberare un potenziale che già c’era e di chiamarlo ad assumersi nuove responsabilità.
Il terreno di sfida fu quello del lavoro, servivano nuovi strumenti e nuove modalità per intercettare, ed in qualche modo alleviare, le tensioni che si stavano creando nelle periferie sociali che ormai già rappresentavano un problema. Su questo terreno a fornirci indicazioni c’era già il sentiero tracciato dai pionieri delle cooperative di solidarietà sociale nate per rispondere ai problemi di persone ai margini e che avevano avviato la ricerca di percorsi per favorirne l’inserimento sociale.
La caduta dei regimi basati sul forte controllo non suggeriva vie repressive, mentre i pochi lustri trascorsi dall’esperienza di Basaglia suggerivano che fosse il tempo di giocare la carta dell’inclusione: bisognava creare delle opportunità che prima non c’erano…
La legge 381/91, una specie di triplo salto mortale

Chiedendo scusa per una semplificazione eccessiva si può dire che sia nata in questo clima la legge 381/91, una specie di triplo salto mortale, nella quale si mescolava una diversa disciplina di regolamentazione dei contratti di lavoro, una diversa disciplina contributiva in cambio di vantaggi per la comunità derivanti dalla creazione di opportunità di lavoro a soggetti svantaggiati (Invalidi fisici, psichici e sensoriali, ex degenti di ospedali psichiatrici e giudiziari, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiari).
C’era una terra promessa da coltivare e si chiamava utilità sociale, o, ad essere più precisi, l’impegno a “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”.
Diciamo la verità, era una bella sfida e si basava sulla consapevolezza di quello che ci si aspettava, di quello che ormai appariva necessario, era una “evoluzione” del modello sociale.
Nasceva così una nuova forma di imprenditoria, che siccome partiva con handicap, necessitava di un coinvolgimento dell’intero sistema statale, dal centro alle periferie rappresentate dai Comuni. Venivano così creati dei canali privilegiati per offrire opportunità di lavoro attraverso convenzioni “purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate”.
Si può dire che tutto sia cominciato così. Si creava un terreno nuovo che diventava terreno anche di competizione tra una visione legata agli ideali laici di una sinistra che a quel tempo si stava ripensando ed una visione cattolica solidale ed umanistica.
Cosa è successo dopo la legge 381/91?
Fu una bella intuizione e fu un bel segnale ma cosa è successo dopo? Si mise in moto una forza che forse all’epoca si pensava che avrebbe potuto procedere come un moto perpetuo che però, come spiegano le leggi della termodinamica, in natura non esiste e si è dovuto imparare a confrontarsi con il mondo così com’era e com’è oggi, certo non migliore di allora.
Infatti, proprio nel tempo e con la globalizzazione, si è affermata la visione di una economia di mercato basata sulla competizione che ha ridotto gli spazi per una vita serena a chi pensava che il centro delle attenzioni di una cooperativa di inserimento lavorativo avrebbe dovuto essere la cura del socio ed il suo accompagnamento verso il recupero ad una piena cittadinanza attraverso il lavoro. Ed invece ci si è trovati costretti a doversi misurare con parole all’epoca forse poco conosciute, si è dovuto imparare a coniugare il concetto di efficienza con quello di produttività e competitività, si è imparato sulla nostra pelle cosa vuol dire “mercato”, e diventarne attori nostro malgrado. Non c’è voluto molto a capire che per sviluppare impresa sociale non bastavano le opportunità, servivano visione, competenze, investimenti e progetti.
La legge 381/91 è stato un bene, è stato un male?
È stato un bene, è stato un male? Non sapremmo dirlo oggi, non credo neppure che queste questioni fossero state contemplate al momento del concepimento della 381, oggi però è un dato di fatto che per sopravvivere qualunque cooperativa sociale di tipo B deve saper esprimere capacità organizzativa e gestionale, efficienza e buona qualità dei servizi che offre. La competizione è ormai entrata anche nel nostro DNA, non per scelta ma per necessità. Che lo si voglia o no bisogna ammettere che si è creata una nicchia di imprenditori sociali che possiedono capacità eccellenti, che fanno anche delle cooperative di inserimento lavorativo un segmento di mercato che produce occupazione e sa competere pur restando fedele alla propria missione originale, quella di offrire opportunità di riscatto a persone in difficoltà.
Non ci sono due vie, ce n’è una sola, quella che impone di accettare la sfida di far crescere il proprio specifico di impresa sociale all’interno di un sistema comunque competitivo; l’alternativa è fuori da ogni principio di legalità e si fonda sulla degenerazione del sistema che si appoggia su scorciatoie legate a connivenze e vantaggi derivanti da regole e comportamenti scorretti che tradiscono lo spirito della legge e prima ancora quello su cui si fonda ogni forma di imprenditoria sociale. Il risultato è la perdita di credibilità di fronte all’opinione pubblica dell’intero movimento cooperativo, una storia che affonda le proprie radici sulle prime esperienze di solidarietà in un mondo del lavoro ancora più primitivo di quello attuale.
E così ci troviamo oggi a doverci esercitare ogni giorno in questa originale esperienza che fa di ogni cooperante un equilibrista, e serve molta attenzione a non far pendere il peso del bilanciere da una parte o dall’altra. Ogni cooperativa deve gestire le risorse umane con cura e prestare allo stesso tempo molta attenzione alle necessità che vengono dall’area della “produzione” cosicché alla fine di un lavoro ci troviamo a doverne fare due. Ma forse dovremmo più semplicemente dire che questa evoluzione ad altro non è servita che a mettere ancora di più in risalto lo specifico della nostra funzione, calmieratori di tensioni sociali e costruttori di speranza. Il fatto poi che si allarghi la forbice tra poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi e che come conseguenza crescano le fasce di disagio e si accentuino le difficoltà per vivere dignitosamente, pone le nostre esperienze e la nostra missione in una condizione di maggior responsabilità. Il sentirsi, non solo parte di una comunità locale su cui esercitiamo la nostra attività, ma attori incistati in un mondo globalizzato che lascia morire le persone per strada o per mare prima ancora che riescano ad arrivare in quelle che considerano le terre della speranza, ci consegna la responsabilità di alzare lo sguardo forti della ricchezza delle nostre storie d’impresa e di vita.
In questo decadere del mondo noi rappresentiamo una buona pratica che si fonda su valori che vanno difesi e raccontati con la consapevolezza e l’orgoglio di quello che siamo e rappresentiamo. Volenti o nolenti ci troviamo davanti ad una terza sfida quella di farci carico di una battaglia di civiltà seppure molti di noi non avevano messo in conto di doverla combattere.
Quali prospettive future?

Ma a cosa servono oggi queste settemila cooperative sociali di inserimento lavorativo con i loro miliardi di fatturato e le decine di migliaia di soci e lavoratori se non a segnare una linea di arresto a questa barbarie incombente? Eravamo partiti con l’idea di una missione umile, di servizio, poi ci siamo trovati a dover competere all’interno di un sistema che poco conoscevamo e del quale, per non soccombere, abbiamo dovuto e alla svelta imparare le regole, così che oggi ci troviamo in prima linea a portare una testimonianza di civiltà e dunque di politica.
Questa battaglia, oggi fa dell’esperienza delle cooperative di inserimento lavorativo un’avanguardia, non sempre del tutto consapevole, sulla sfida più urgente ed attuale verso la cosiddetta transizione ecologica; questa a parole e nei documenti si fonda sulle ormai ben note tre gambe: ambiente, economia, inclusione sociale, ma nei fatti viene coniugata solo sulle prime due, con la terza relegata ad un ruolo ancillare, non tanto per volontà esplicita ma per mancanza di una cultura che sia in grado di rifondare il modello basato sul liberismo senza regole e la competizione senza limiti.
Nessuno ignora che senza “pace sociale” non ci possa essere nessuna prospettiva di sviluppo, ma al tempo della competizione sfrenata e del profitto come via maestra la parola inclusione torna di nuovo nella casella dei “servizi sociali”, dei costi a carico dei bilanci pubblici e quindi della collettività.
Se c’è oggi una esperienza più vicina nella pratica ai principi delle encicliche di papa Francesco, di ispirazione cattolica o laica che sia, è rappresentata dalla cooperazione sociale di inserimento lavorativo.
Dopo trent’anni, la prospettiva dalla quale oggi osserviamo il mondo che ci circonda ci restituisce anche la misura della strada che abbiamo percorso, adattandoci in buona misura alle regole che attorno a noi cambiavano ma allo stesso tempo restando sempre fedeli a quelli che eravamo ed alla missione che ci eravamo assunti. Oggi è forse arrivato il tempo che con maggiore consapevolezza e determinazione ci si impegni anche a contribuire a tracciare la rotta futura; il diritto alla cittadinanza attiva che vorremmo per i nostri soci impone che chi questa storia ha contribuito a scrivere cominci anche a pensare di assumersi consapevolmente la responsabilità di riscrivere le regole per fare in modo che la prospettiva di una società più accogliente diventi sempre più praticabile.