Trent’anni sono il tempo di una generazione. Mi chiedo cosa rimane degli entusiasmi che spinsero molti di noi a vivere un’avventura che all’epoca ci pareva allineata con il sentire diffuso della gente. C’era un bisogno reale e c’era bisogno di un cambiamento, servivano energie fresche per dare risposte che lo Stato non avrebbe potuto dare. L’avrebbe fatto la cooperazione sociale di inserimento lavorativo, ma era come se la battaglia fosse di tutti, e ci sentivamo parte di una generazione che avrebbe contribuito a costruire un mondo migliore. Siamo orgogliosi del cammino percorso, ma oggi dobbiamo ammettere che se ci voltiamo indietro ci scopriamo soli, molto più soli di prima.

Eppure, tutta questa storia presenta due facce: una è quella che racconta di un successo in buona misura colto, qualcosa di cui possiamo andare tutti fieri, un bersaglio centrato; accanto a questa, però, ce n’è un’altra, quella di sentirsi come vicari di una funzione che non è più sentita come risposta ad un bisogno sociale diffuso, ma come un’attività d’impresa, che a volte dietro all’etichetta del “sociale” nasconde non si sa cosa di non sempre chiarissimo, a volte indicibile. Non voglio generalizzare, utilizzo questo sentimento sicuramente ingigantito per dire che mentre un tempo ci sentivamo l’equipaggio volenteroso di un vascello che navigava sulla stessa rotta insieme a tanti altri, tutti legati da un patto solidale, con la gente e l’opinione pubblica vicina, oggi siamo chiamati a dover spiegare − quasi tutto e quasi tutto da capo − il senso della nostra missione. Ci hanno presi per operatori tecnici, forse specializzati, ma sempre tecnici di una forma specifica d’imprenditoria. È come se avessimo cambiato binario senza accorgercene, come se ci avessero dirottato su un’altra linea e non ci eravamo preparati a dover spiegare di nuovo chi siamo, e verso dove vorremmo andare. I principi restano gli stessi, sono ancora le stelle fisse sullo stesso cielo di prima, che oggi, però, a molti risultano meno visibili. Una possibile riforma della legge 381 deve partire da queste considerazioni, per individuare come e quali risposte socio-economiche pianificare.

Costruire comunità: serve maggiore dialogo e condivisione di responsabilità
Non vorrei apparire disfattista, e certo non lo sono, ma forse è stata anche la nostra crescita in termini di professionalità e di esperienza ad aver contribuito ad allontanarci dall’opinione pubblica: noi oggi sappiamo molto meglio di trent’anni fa cosa significhi gestire relazioni di cura e abbiamo anche imparato a coniugarle con attività di imprese che devono a fine mese far tornare i conti. Insomma, un doppio salto mortale che meriterebbe più attenzione. La cosa curiosa è che mentre ognuno di noi ha imparato a costruire relazioni con la comunità di riferimento, meglio, con le persone che incontriamo ogni giorno nel nostro lavoro, tutti insieme come movimento ci stiamo allontanando dalla sensibilità delle istituzioni e, mi pare, anche dal sentire comune oltre i nostri confini di contatto e di relazione. La costruzione di comunità ha bisogno di fermenti positivi, e noi sicuramente lo siamo, ma questi non bastano: serve maggiore dialogo e condivisione di responsabilità con tutti gli altri attori della filiera, da una parte ci sono i nostri soci, utenti e lavoratori fragili, dall’altra molti altri attori che a tutto pensano fuorché al nostro lavoro. Eppure, senza di noi, anche il loro sarebbe più difficile. Ci vorrebbe una visione della società sistemica, recuperare un po’ di quella consapevolezza, che con il tempo è andata perduta, di cos’è il lavoro sociale e quanto sia prezioso, per tutti, ma proprio per tutti. Dovremmo far tornare molti alle scuole primarie e ripassare la lezione di Menenio Agrippa mentre ci stiamo smarrendo negli aridi deserti da ragionieri, da investitori, da finanzieri. E su questi terreni parlare di cura, di sostenibilità, di attenzioni reciproche è sempre più difficile.
La nostra esperienza è preziosa
Questa è una stagione formidabile, sotto la spinta urgente ed indifferibile dell’emergenza ambientale, siamo costretti ad effettuare una brusca virata; nel programmarla, si è riscoperta la necessità di coniugarla insieme alla sostenibilità economica e a quella sociale. Gli squilibri a cui stiamo assistendo oggi non hanno precedenti nella storia: persone che maneggiano soldi di interi Stati, sfruttamento e miseria che dilagano, terre estorte per fame a chi è vissuto lì da sempre e masse crescenti di persone impoverite e sempre più disperate e pronte a tutto. Tuttavia, leggendo i documenti che dovrebbero orientare questa transizione verso il nuovo mondo atteso, scopriamo che al capitolo dell’inclusione sociale, di una distribuzione della ricchezza più giusta, di un mondo più solidale, ci sono, per dirlo con Greta, solo tanti “bla bla” ma pochi fatti. In questo procedere da orbi, la nostra esperienza è preziosa perché porta con sé non solo competenze imprenditoriali, ma anche competenze etiche che al giorno d’oggi sono realmente rivoluzionarie, anche fuori da ogni ideologia. Non lo è forse l’idea di un giusto profitto? Ecco: io penso che seppure le nostre esperienze si maturano sui territori, perché sono le comunità con i loro problemi il nostro terreno del lavoro di cura, noi dovremmo guardare più lontano ed alzare la voce, perché in mezzo a questo conformismo imperante, in mezzo a questo dominio del pensiero unico realizzato per uno strano scherzo del destino non nei regimi totalitari ma nel cuore dei Paesi democratici, ci sia bisogno di chi alza la voce per illuminare le buone pratiche unite ai buoni pensieri e ai giusti valori.
Visioni strategiche e nuove sfide imprenditoriali
L’introduzione di un dispositivo che favorisce la co-progettazione è forse la novità più interessante di tutta la riforma del Terzo Settore, anche se tutto dipenderà da quanto gli amministratori sapranno coglierne le potenzialità. Si tratta, in sostanza, di condividere quella visione strategica che mira a co-costruire gli obiettivi, le azioni, gli investimenti necessari alla realizzazione di un modello di sviluppo virtuoso in grado di armonizzare le istanze di tutti gli attori sociali. La co-progettazione supera il concetto di committente-fornitore, che spesso ha prodotto iniquità e disuguaglianze, per trasformarsi in un processo generativo che elabora le complessità di ciascun attore e ne partorisce proposte inclusive. Come spesso si dice: non è tempo per navigatori solitari. Il tempo della cooperazione sociale non è affatto scaduto: la cooperazione sociale ha funzionato egregiamente anche nei tempi terribili della pandemia.

La cura e l’ostinata volontà di difendere i posti di lavoro dei nostri soci fragili, per questo doppiamente preziosi, ha evidenziato che c’è volontà e che ci sono competenze e strumenti. Credo che dovremmo lavorare per liberarci di questa cappa che ci fa apparire “buoni” agli occhi della gente e cercare di essere più partecipi proprio in virtù di quello che abbiamo dimostrato in questi trent’anni di saper fare. Le criticità sono state il nostro pane e forse meglio di altri abbiamo imparato a dividerlo con equità e competenza. I nostri sforzi sono anche andati nella direzione di cercare di affrancarsi dai servizi in appalti sempre più miseri, mentre al nostro interno è cresciuta la consapevolezza di doverci liberare dalle dipendenze storiche: per trasferire la nostra esperienza, i nostri valori, il nostro “stile”, sul terreno di nuove sfide imprenditoriali, battendoci per affermare che siamo pur sempre soggetti di impresa che cercano di bilanciare competenza, integrazione e il giusto profitto per tutti.
Autore Tito Ammirati – Presidente cooperativa sociale Arcobaleno
Questo Articolo è stato pubblicato nel secondo numero di M. margine magazine, il nuovo strumento di comunicazione della cooperativa sociale Il Margine.
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